La seguente recensione è a cura di Lucia Guidorizzi.
C’è una pietas, virtù essenzialmente umana, che deriva da
uno sguardo spaesato e al tempo stesso lucido e consapevole nell’osservare il
dolore e lo sradicamento, la disarmonia che governa il mondo e le relazioni
umane.
Questa pietas rimane sbigottita davanti al male che
puntualmente si manifesta nella ferocia indifferenza del quotidiano.
E proprio da qui, da questo sguardo consapevole della dolorosa
precarietà insita nella condizione umana che inizia un percorso di
consapevolezza che permette di accogliere e riconoscere, per effetto di
consonanza, il proprio dolore e quello altrui, facendoli vibrare all’unisono.
Di questa pietas, virtù segreta e vigile, è permeato il
bellissimo libro di poesie “Stranieri” (Valentina Poesia 2017) di Francesco
Sassetto.
Già l’immagine in copertina annuncia con efficacia
emblematica il tema che attraversa il libro: compare una moltitudine indistinta
vista di spalle, diretta verso una destinazione sconosciuta.
Ed è proprio intorno a questa sola moltitudine, a questa
comunità di anime non fuse, ognuna delle quali è portatrice di pena e di
mistero, che si snoda la raccolta poetica di Francesco Sassetto, luminosa
testimonianza degli anni bui che stiamo vivendo.
La raccolta è divisa in tre sezioni “Aqua alta”, “Altri
annegamenti” e “Stranieri” che scandiscono un percorso attraversato da una
profonda pietas eppur scevro da ogni sentimentalismo.
Nella prima parte, intitolata “Aqua alta” vi sono dodici
poesie scritte in dialetto veneziano (con traduzione a fronte) .
La scelta di utilizzare il dialetto, lingua madre per
eccellenza, diviene una sorta di rito apotropaico, davanti alla marea montante
dell’ insensatezza del vivere che ci rende tutti apolidi e reciprocamente
estranei.
Il dialetto anima la parola poetica di sonorità , di
profondità musicale e, risvegliando gli affetti sopiti, è in grado di penetrare
nei precordi e di sciogliere quelle emozioni che si sono cristallizzate a forza
di rimanere inespresse.
In questo modo il dialetto diviene una sorta di esorcismo
poetico contro il vuoto della società attuale e riconduce ad una visione più
umana ed intima dell’esistenza.
Le poesie che compaiono in questa sezione evocano appunto
l’acqua alta, fenomeno che periodicamente, in particolar modo in primavera e in
autunno si manifesta a Venezia.
Si tratta di acque mnestiche, inconsce, che raccontano
vicende dolorose, narrano di esistenze travolte e annientate da forze ostili.
La sezione è permeata da un senso di oscuro fatalismo, ma al
tempo stesso da una stoica fermezza che permette a Francesco Sassetto di
raccontare i drammi silenziosi del quotidiano, che spesso per fretta e
distrazione, non sono neppure percepiti, come nella poesia “Aqua alta” che apre
l’omonima sezione
“Xe spario Gigi,
ancùo xe sinque mesi, el
paron
ga messo ‘n’altroa far co Dino i cafè.
Laqua domàn tocarà da novo i sentotrenta
E se sùpia siroco
Anca de più.”
In “Mama”, dedicata alla madre, Francesco Sassetto ne
racconta con trattenuta commozione il
suo disapparire con occhi asciutti ma con tenerezza profonda.
“Xe sta queo che ti volevi, ‘ndàr via de qua,
dal girèlo,
i dotori, la badante,
da qualche altra parte
o
nel gnente
megio che qua
cussì
a spetar.”
In altre poesie compare la scuola, una tematica spesso
presente nella poetica dell’autore, descritta come un carrozzone balordo e
sconclusionato pregno di burocrazia,
malumori e disagi, ma al tempo stesso vissuta come luogo di trincea, di
resistenza, ultimo baluardo di civiltà ed punto di partenza per una ricerca di
senso.
La raccolta procede con la sezione “Altri annegamenti”,
composta da undici poesie, tutte in italiano, a parte brevi digressioni
dialettali, ed è pervasa dalla consapevolezza della condizione di fragilità che
appartiene indifferentemente a tutti gli esseri umani, di qualsiasi razza,
sesso, età o nazionalità appartengano.
Francesco Sassetto, nel descrivere questa fragilità, inizia
col riconoscerla in primis in se stesso in
“Natale 2014”
“Dovrei smettere di fumare, ho due stent
piantati
nel cuore
il fumo fa male e anche questo mattino di luce imprecisa,
andare e tornare ogni giorno uguale
stanca e fa male.”
Per poi raccontare in “Stefania” la banalità del male della violenza
domestica a causa della quale ogni giorno vengono uccise tante donne.
“Poi sul giornale a pagina piena, la meraviglia,
il dolore di amici e parenti, due foto a colori,
le foto del prima e del dopo, un poliziotto
che stende il verbale
le stesse parole.
Non l’avevi davvero capito, Stefania,
il suo grande amore.”
O in “E arrivano ancora” dove si sofferma sul dramma
dell’immigrazione clandestina
“e annegano ancora a dieci, a cento alla volta, ogni giorno
una nuova ondata, altri corpi gonfi di mare spiaggiati
detriti di mareggiata
e il
caporione leghista alla televisione
fa vomitare”
In quest’ultima appare anche una parte in dialetto, grazie
al quale certe considerazioni acquistano un’efficacia più incisiva e
drammatica.
Nella vita si può annegare in tanti modi diversi ma il
risultato è sempre lo stesso.
La sezione conclusiva “Stranieri” racchiude nove poesie di
cui una è in dialetto e le altre in italiano.
“Autobus n° 7” fotografa con acume il degrado della banlieue
mestrina in cui un coacervo disordinato
di esistenze alla deriva manifesta quello che Freud definiva “il disagio della
civiltà”
E qui, la pietas di Francesco Sassetto si fa alta,
infiammandosi di una compassione profonda e al tempo stesso distaccata.
“Nel sette si respira la paura dell’animale
braccato senza via di fuga, occhi attenti
a scansare gli occhi dei migranti, odori aspri
di pelli e vestiti dei nemici, si respira
silenzio e ostilità, tacita avversione, ansietà,
si viaggia tutti a batticuore, tutti ignoranti,
stranieri e distanti, nella notte,
tutti senza
amore.”
Oppure nella poesia “Yan Lin” in cui la ragazza cinese
protagonista per la sua condizione di sradicamento ricorda per certi aspetti la
poesia “In memoria” di Giuseppe Ungaretti.
“Yan Lin sul permesso di soggiorno, ma qui il suo nome
è Giulia, fuggita da chissà quale campagna cinese,
di Mao
e del libretto rosso Giulia
non sa niente, ma sa bene la miseria,
l’acqua alle ginocchia
la schiena che si spezza
la risaia che ammala e ammazza.”
La perdita del nome da parte dello “straniero” comporta
anche la perdita dell’identità e contribuisce ad alimentare la sensazione di
spaesamento che compare anche nella poesia di Ungaretti.
“Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese..”
A proposito dell’opera di Francesco Sassetto spesso si è parlato di “poesia civile”, ma la sua scrittura va oltre ogni definizione e categorizzazione, in quanto profondamente umana e come tale è in grado di e-ducare chi la legge, conducendo il lettore fuori dagli angusti confini del suo Ego.
Lo sguardo spaesato e spiazzante del poeta non celebra, non sentenzia, non definisce, ma semplicemente accoglie il conradiano orrore della contemporaneità, auscultando il cuore di tenebra di mondi alla deriva e trasforma in canto quel battito oscuro e a tratti indecifrabile.
Francesco Sassetto sa che ogni dolore ed ogni solitudine hanno il medesimo valore in quanto è la condizione umana stessa a renderci tutti stranieri sulla terra, a noi stessi e agli altri. Perciò indaga nelle pieghe di esistenze sulle quali nessuno si sofferma e vede nel volto dello Straniero il volto stesso della condizione umana.
Il risultato di questa sua ricerca è un libro bellissimo intriso di pietas e di coraggiosa opposizione al dilagare dell’indifferenza che travolge la società ed il singolo individuo e leggendolo, s’impara a riconoscere e ad accogliere lo Straniero che portiamo dentro di noi.
Lucia Guidorizzi
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